Termovalorizzatori, una soluzione estrema

Da come i media hanno riportato la questione degli inceneritori per il M5S, pare che noi non si voglia gestire la questione rifiuti.
Al contrario, come sempre quando si parla di ambiente, l'argomento non va affrontato con facili ideologismi, ma con pragmatismo tecnico.
 
È evidente che non si possa fare a meno degli impianti di incenerimento rifiuti, almeno allo stato attuale delle cose, ed è ideale produrre energia dal trattamento degli stessi.
 
Qual'è la proposta? Non certo quella di implementare l'ampliamento della portata degli inceneritori, al contrario andrebbero dismessi quelli obsoleti (vedi Cremona) e concentrate tutti gli sforzi sulla differenziazione e sul recupero. Non c'è altra strada,

Il riciclo rappresenta senza dubbio la soluzione più ecologica per la gestione dei rifiuti, ma non tutti i materiali possono essere riciclati, e a questi vanno sommati gli scarti del riciclo (di solito intorno al 20 per cento del totale riciclato). Per i rifiuti non recuperabili, le principali soluzioni sono due: l’incenerimento e la termovalorizzazione o la discarica.

C'è però una considerazione non da poco da fare sui termovalorizzatori perché sono l'unico tipo di impresa che funziona in un modo molto particolare: gli impianti ricevono la materia prima (i rifiuti) e vengono pagati per trattarla, la termovalorizzano e immettono energia in rete per la quale vengono di nuovo pagati. Sarebbe come se il sarto venisse pagato invece di pagare per la stoffa che gli serve per realizzare gli abiti che poi venderà.
Sembra un discorso semplicistico ma è esattamente la foto della realtà.
 
Sarebbe opportuno quindi valutare se il costo dell'energia immessa in rete dai termovalorizzatori debba essere allineato ai prezzi di mercato o se i cittadini possano trarne un vantaggio.

Prendendo in esame due regioni “virtuose” in Lombardia sono presenti 13 impianti, in Emilia Romagna 7: nel 2020, hanno trattato complessivamente circa 2,8 milioni di tonnellate di rifiuti urbani che rappresentano il 74,5% di quelli inceneriti nel nord.

In Italia la quota di rifiuti avviati a termovalorizzazione è pari a 5,3 milioni di ton per i rifiuti urbani nel 2017 (pari al 18% rispetto al totale rifiuti urbani gestiti) un dato di oltre 10 punti percentuali in meno rispetto a quello medio registrato a livello europeo (pari al 28,5% considerando solo i rifiuti urbani).
In compenso le nostre discariche traboccano: entro 2 anni anche quelle saranno esaurite, se non troviamo alternative e nessuno di noi vorrebbe una discarica dietro casa.

Oltre all’anidride carbonica, che è il principale gas serra ma non ha effetti negativi diretti per la salute, l’attività degli inceneritori produce una serie di sostanze inquinanti, alcune comuni a tutti i processi di combustione, altre specifiche di quella dei rifiuti.

Nella prima categoria rientra il particolato, l’insieme delle sostanze solide e liquide che restano sospese nell’aria in particelle con un diametro fino a mezzo millimetro, e che sono prodotte anche dalle industrie, dagli impianti di riscaldamento a gas e dal traffico stradale: la loro presenza nell’atmosfera può indurre problemi agli apparati respiratorio e circolatorio.
Ci sono poi il diossido di zolfo (SO2), gli ossidi di azoto e il monossido di carbonio (CO): sostanze tossiche o ritenute cancerogene. Sono cancerogeni anche gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA), che appartengono alla seconda categoria, insieme ad esempio ad alcuni metalli pesanti come cadmio e mercurio e alle diossine.
Negli anni le norme sulle emissioni di queste sostanze sono state aggiornate più volte, sia a livello europeo che italiano, e sia le industrie che gli inceneritori devono rispettare limiti stringenti per ognuna di esse, usando sistemi di filtraggio. I limiti sono fissati nei cosiddetti BREF, una serie di documenti di riferimento legati alla direttiva europea sulla prevenzione e la riduzi dell’inquinamento che elencano le “best available techniques” (BAT), cioè i migliori metodi tecnologici disponibili per contenere le emissioni. E per quanto riguarda l’incenerimento dei rifiuti i limiti sono più restrittivi rispetto a tutti gli altri settori industriali.
Negli ultimi vent’anni la quantità di rifiuti inceneriti è aumentata, da 2,2 milioni di tonnellate nel 2000 a 6,3 milioni di tonnellate nel 2018, secondo i dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), ma grazie a questi limiti e alle tecnologie di cui impongono l’uso, il contributo degli inceneritori per i rifiuti urbani alle emissioni di alcuni inquinanti è diminuito, anche in termini assoluti: è il caso del diossido di zolfo, del cadmio, degli IPA e delle diossine (tra le sostanze più pericolose).
Ma esistono anche sistemi che non passano per la combustione come la gassificazione e la pirolisi, più o meno diffusi e collaudati, che differiscono fra loro per tipo di rifiuto trattato, per emissione e per prodotti di risulta (liquidi, gassosi, solidi). In generale la maggior parte di essi è caratterizzata dal fatto che il materiale da trattare deve essere finemente sminuzzato per essere investito in maniera uniforme dalla corrente di azoto (pirolizzatori) o azoto e ossigeno (gassificatori).
Le temperature operative sono in genere fra 400 e 800° C nel caso della pirolisi mentre per la gassificazione sono nettamente più elevate. Le emissioni delle due tecnologie sono sensibilmente differenti rispetto a quelle relative ad un inceneritore, e variabili in relazione agli specifici impianti e processi utilizzati nonché al tipo di materiale trattato. Questi sistemi potrebbero essere una via alternativa, ma non la soluzione. Dobbiamo ridurre drasticamente la produzione di rifiuti - imballaggi e obsolescenze programmate per es. - differenziare, riciclare e riutilizzare.
 
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ambiente, salute, termovalorizzatori, rifiuti, commento

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